Giovanni Verga
Romanziere e novelliere d’eccezione, oltre che autore di teatro: a lui è legata l’affermazione del Verismo in Italia, nella realizzazione del programma teorico elaborato prevalentemente da Capuana.
Nato a Catania il 2 settembre 1840 da una famiglia di possidenti, egli cominciò a scrivere giovanissimo, pubblicando nel 1861-62 il suo primo romanzo, I carbonari della montagna. Nel frattempo, dopo aver rinunciato a laurearsi in legge, aveva prestato servizio per 4 anni nella Guardia Nazionale.
Recatosi per la prima volta a Firenze nel maggio 1865, vi tornò con sempre maggior frequenza fino al 1872: furono questi gli anni cruciali della sua maturazione, segnati dalla frequentazione di letterati ed artisti. Dal novembre 1872 al 1893, salvo periodici ritorni in Sicilia, Verga dimorò a Milano, dove partecipò alle discussioni e ai progetti dell’avanguardia letteraria e artistica dell’epoca, cioè degli scapigliati milanesi; e presso editori milanesi pubblicò la serie dei romanzi mondani che gli procurò un indiscusso successo: Eva (1873), Eros (1874) e Tigre reale (1875).
Ma già veniva mutando in lui un’alternativa, a cominciare dal “bozzetto siciliano” Nedda (1874) e dall’abbozzo dei Malavoglia, prima tappa di un ciclo narrativo che, sul modello di quello zoliano, doveva tracciare un quadro obiettivo dell’intera società. La raccolta di novelle Vita dei campi (1880) completa l’analisi del mondo contadino siciliano già delineatasi nei Malavoglia e compiuta con la Novelle rusticane (1882) e il Mastro-don Gesualdo (1889).
Negli stessi anni Verga stampa altre raccolte di novelle che segnano la fine della sua grande stagione creativa.
Ritiratosi in Sicilia nel 1893, Verga tenta invano di condurre a termine il “ciclo dei vinti” e si limita a comporre due atti unici e il dramma Dal tuo al mio (1903). Gli ultimi anni sono contrassegnati da preoccupazioni economiche, da posizioni ideologiche sempre più arretrate, ma anche dai teneri rapporti epistolari con Dina di Sordevolo, la contessa conosciuta a Roma nel 1881 e amata fino alla morte, sopraggiunta il 27 gennaio 1922 per un attacco di trombosi.
L’impersonalità nella descrizione del mondo popolare
La novità introdotta da Verga nella narrativa italiana è evidente soprattutto sul piano stilistico: il suo approdo al Verismo è una scelta anzitutto stilistica. Si basa essenzialmente sull’“eclissi dell’autore”, che non deve far trasparire il suo giudizio sui fatti e sulle psicologie dei personaggi (antitetico in ciò a Manzoni), sulla scelta di un narratore interno al libro e quindi capace di una aderenza pressoché totale al parlato e alla mentalità popolare, sull’uso di una sintassi mimetica che contrasta in maniera stridente con quella in voga nei romanzi contemporanei, su una dialettalità che non è calco o riproduzione quasi folklorica del dialetto, ma espressione rivissuta dell’animo stesso dei personaggi umili cui sa dar voce. Ciò non significa una scelta politica progressista di Verga, che anzi è sostanzialmente un conservatore.
I temi ricorrenti nella sua produzione “rusticana” (quello della “roba” contrapposto alla “religione della famiglia”, “l’ideale dell’ostrica” contrapposto alla “vaghezza dell’ignoto”) si riassumono nella concezione dell’esistenza come “lotta per la vita”: ma a differenza che in Darwin, questa non sfocia nella vittoria, ma nell’inevitabile sconfitta, nella distruzione e nella solitudine più assoluta e insuperabile.
Le prime opere e il successo dei romanzi “mondani”
L’esordio letterario di Verga non fu di quelli che potessero far presagire il grande scrittore: i romanzi catanesi abbondano di retorica, di forzature stilistiche, di difetti formali e imprecisioni fino al vero e proprio errore grammaticale. I modelli a cui ben presto Verga si volse non sono quelli italiani del manzonismo banalizzato allora in voga, ma i francesi ricchi di promesse e intuizioni.
L’approdo a Firenze nel 1865 conferma l’opportunità e il buon fiuto delle scelte biografiche verghiane: la capitale d’Italia è infatti in quegli anni centro vivo di cultura, dove agiscono letterati d’ogni regione. Dopo essere stato a lungo incerto fra teatro e romanzo, Verga sceglie quest’ultimo, pur senza ripudiare del tutto la forma drammatica. E il romanzo gli porta anche il consenso del pubblico che gradisce Storia di una capinera (1871) e gli altri romanzi. Le protagoniste dei romanzi mondani sono donne che vivono l’amore in modo tragico, figure affascinanti e un po’ misteriose. I personaggi maschili invece risultano spesso privi di personalità, ma si riscattano quando assumono il ruolo di alter ego dell’autore, e pagano al posto dello scrittore il tradimento verso la terra natale e la famiglia.
La seconda svolta fondamentale nella carriera verghiana è costituita nel1872 dall’arrivo a Milano, Qui incontra il gruppo degli scapigliati, cioè la pattuglia più agguerrita in campo artistico e critico, la cui frequentazione costituirà, assieme alle discussioni con il conterraneo Capuana, pure spostatosi nel capoluogo lombardo, una delle molle principali per la maturazione verghiana.
La lezione del Naturalismo
È con la fine degli anni ‘70 che si può fare iniziare la trasformazione del ruolo letterario di Verga da gregario a sperimentatore e innovatore, poiché la novella Nedda (1874), ritenuta da taluni l’inizio del Verga verista, non presenta autentiche novità.
Dal 1879 in poi, invece, Verga inizia a cogliere l’importanza del Naturalismo francese dal quale ricava alcuni insegnamenti fondamentali: egli passa infatti da una visione del mondo rusticano ancora tradizionale, quale è visibile in Fantasticheria, dove era filtrata attraverso gli occhi del narratore e della stessa aristocrazia interlocutrice, a definire i caratteri salienti del modulo veristico: la fedeltà al “documento umano”, presentato “nudo e schietto” senza che intervenga la “lente dello scrittore”, l’adesione al metodo scientifico e la scomparsa del narratore-regista tradizionale.
Il 1880 è l’anno della pubblicazione di Vita dei campi. Il decennio cruciale è quindi quello compreso fra il 1879 e il 1889, anno dell’edizione definitiva del Mastro-don Gesualdo, attraverso I Malavoglia e le Novelle rusticane.
Ma nello stesso decennio sono presenti tutti i temi e i generi dell’intera carriera.
La tecnica narrativa e il “ciclo dei vinti”
Al centro di questa produzione stanno I Malavoglia: dalla scelta base dell’impersonalità discende una serie concatenata di modi stilistici, quali l’annullamento dell’autore a favore di un narratore o coro popolare che si incarica di presentare tutta la vicenda, la fusione delle unità narrative del passaggio inavvertito del discorso fra i vari personaggi, l’uso cospicuo del ‘discorso indiretto libero’.
Il frequente ricorso alla sintassi dialettale, al proverbio popolare e al parlato proverbiale, anziché creare un ‘colore locale’ puramente esteriore, arriva alla conquista di un’originalissima ‘dialettalità interna’.
La tecnica narrativa della totale impersonalità, con la rinuncia a qualsiasi giudizio estraneo all’opera, a qualsiasi commento da parte dell’autore onnisciente, e con la carica drammatica che ne deriva, è senz’altro la carta vincente del romanzo, già in buona parte saggiata nelle novelle di Vita dei campi.
Il risultato raggiunto però non basta a Verga, sempre tentato dal progetto di portare a compimento il suo ‘ciclo’ ambizioso. Ma il peso che si sentiva addosso e l’insuccesso de I Malavoglia fecero vacillare la speranza di portare a termine il ‘ciclo dei vinti’, iniziato splendidamente con I Malavoglia dal primo gradino della scala sociale, nel misero ambiente di un villaggio di pescatori, il ciclo si accresce con l’analisi del popolano arricchito protagonista di Mastro-don Gesualdo e sarebbe dovuto continuare con la Duchessa di Leyra, l’Onorevole Scipioni e l’Uomo di lusso. Il progetto non fu realizzato che a metà, per le difficoltà radicali di trovare un linguaggio tanto articolato da rispecchiare usi e comportamenti delle classi borghesi ed elevate, senza abbandonare il metodo verista. Questo lascia Verga in una condizione di amara impotenza.
Il ritorno a soluzioni linguistiche più tradizionali
Il Mastro-don Gesualdo è testimonianza del cambiamento di rotta effettuato da Verga dopo la metà del decennio: esso risulta molto meno innovativo dal lato formale, poiché vi è una forte riduzione dell’indiretto libero, una maggiore articolazione sintattica e compositiva. Il narratore viene affiorando dal testo, compartecipe della vita e della mentalità dei suoi personaggi, e incapace quindi di giudicarli o di sollevarsi a commentarne le vicende.
Verga opta per una spiccata normalizzazione sintattica e lessicale. Egli sprofondò sempre più nel silenzio.