Leon Battista Alberti
Leon Battista Alberti fu architetto, letterato e scrittore d’arte e di tecnica artistica. Nato durante l’esilio della sua famiglia, di origine fiorentina, trascorse la giovinezza a Padova, dove divenne allievo dell’umanista Barsizza, e a Bologna; qui si laureò in diritto a ventiquattro anni. Successivamente, impiegatosi presso il cardinale Albergati, legato papale, si reca in Francia e in Germania. Nel 1431-34 lo troviamo a Roma, dove divenne membro della cancelleria pontificia alla corte del papa Eugenio IV, che lo nominò anche priore di San Martino e Gangalandi (1432). In questo periodo scrive il “Della famiglia” e la “Descriptio urbis Romae” (Descrizione della città di Roma), per la quale misurò con strumenti matematici di sua invenzione gli antichi monumenti. Nel giugno del 1434, al seguito del papa, Alberti poté finalmente soggiornare a Firenze, la città dei suoi avi, dove frequentò il circolo umanistico di San Marco ed ebbe il primo contatto, rivelatore, con l’arte nuova del Rinascimento fiorentino. Fu in questa occasione che si entusiasmò per le opere del Brunelleschi, di Masaccio, di Donatello. A Firenze scrisse il “De statua”, dove analizzò per primo e sistematicamente le proporzioni del corpo umano, e il “De pictura”, dedicato proprio a Brunelleschi, in cui codificò per la prima volta il metodo di rappresentazione prospettico e la pittura venne intesa come veduta prospettica della natura. Sempre con la curia si trasferì nel 1436 a Bologna; nel 1438 soggiornò a Ferrara alla corte di Lionello d’Este, cui fornisce forse idee e disegni per l’arco del Cavallo e il campanile del duomo, prime opere architettoniche in cui si riconosce un suo intervento. Dopo un altro soggiorno a Firenze nel 1439-43, tornò a Roma e da allora vi si stabilì in permanenza. Con l’elezione di papa Niccolò V (1447), Alberti sovrintese a un ampio programma di rinnovamento edilizio, urbanistico e di restauro di antichi edifici, e nel 1450 scrisse il “De re aedificatoria” (1450, Dell’architettura), in dieci libri. Alberti giunge all’architettura solo dopo i quarant’anni da diverse esperienze letterarie e scientifiche nelle quali si afferma una diversa intuizione dell’uomo, riconosciuto ora come artefice del proprio destino e capace, dall’indagine della natura, di conoscere il vero e creare il bello, di fondare la propria dignità su una base razionale. Per questo, mentre divide la fase di progettazione da quella dell’esecuzione, eleva l’aspetto pratico-artistico a operazione intellettuale “separata da ogni materia” (segnando una netta svolta rispetto a Brunelleschi per il quale l’architettura è ancora “arte di costruire”, fatto sperimentale di tecniche e materiale) e la fa entrare in circolo con l’umanesimo letterario, filosofico, scientifico, con l’etica della nuova vita civile; egli procede a una sistemazione teorica e a una fondazione filologica del classicismo, che incide nella storia della cultura al di là delle alterne fortune delle sue opere architettoniche. Ritenuto ottimo disegnatore e prospettico, i suoi disegni sono andati perduti. Sua prima opera certa è, a Roma, Santo Stefano Rotondo: demolendo le pareti già in rovina della chiesa, restaurando il colonnato interno e murando l’intercolumnio [spazio compreso tra due colonne] del secondo colonnato, l’Alberti chiuse l’edificio in una nuova disposizione di spazi. Dopo questo restauro creativo, iniziò nel 1450 il rivestimento della gotica chiesa di San Francesco a Rimini, il Tempio Malatestiano. Ma i precisi progetti di trasformazione dell’interno (già manomesso nel 1447 da Matteo de’ Pasti e Agostino di Duccio), cioè la volta a botte in legname, il nuovo transetto e il coro, la cupola semisferica, non ebbero mai principio di esecuzione. Solo il celebre esterno fu realizzato come omaggio dell’Umanesimo all’arte romana. Seguono le opere fiorentine: il progetto per palazzo Rucellai, dalla facciata elegantemente scandita dall’intelaiatura lineare delle cornici e delle lesene [Risalto verticale su una superficie muraria avente forma tale da poter essere assimilato a un pilastro incassato, generalmente a sezione orizzontale rettangolare, sporgente leggermente dalla superficie stessa], il prospetto di Santa Maria Novella, la cappella del Santo Sepolcro in San Pancrazio (1467) e la tribuna dell’Annunziata (disegnata nel 1470). Per i Gonzaga l’Alberti progettò e iniziò tra il 1459 e il 1460 la chiesa di San Sebastiano a Mantova. La facciata subì tali modifiche che ne rendono difficile l’analisi. Chiaro, invece, l’interno, il primo a croce greca dell’Umanesimo, che nella sua essenziale stereometria resistette all’ingiuria dei secoli: al centro della croce, la cupola semisferica e il cubo di 15 m di lato creano uno spazio nitidamente definito e insieme grandiosamente sonoro, perfettamente intonato, pur nella sua solennità, alla misura umana. Nella chiesa di Sant’Andrea, pure a Mantova, ideata nel 1470, l’Alberti, accettando apparentemente la forma basilicale latina, coi suoi progressivi piani prospettici, riuscì a trasformarla in assoluta unità plastica col contrapporre e legare in giochi alterni, sotto la volta maestosa e unificante, le masse chiuse delle cappelle minori e i vani sonori delle cappelle maggiori. Morì a Roma nel 1472. Tempio Malatestiano Il tempio Malatestiano che si trova a Rimini è un esempio eccelso dell’architettura rinascimentale italiana, si limita tuttavia al semplice rivestimento esterno, per giunta incompleto, della chiesa che i francescani avevano eretto, ad aula unica non absidata, nella prima metà del XIII sec. Ma già nel 1350 circa, l’essenzialità dell’interno venne modificata con la costruzione di cinque cappelle lungo i fianchi, dalle quali cominciò, con il loro restauro, la riforma del tempio voluta da Isotta degli Atti e Sigismondo Pandolfo Malatesta, che nella chiesa aveva sepolto i suoi avi. Così nel 1447 ebbero inizio i lavori nella cappella degli Angeli e in quella di San Sigismondo, che in dieci anni vennero ultimati da Matteo de’ Pasti, medaglista e architetto, coadiuvato da Matteo Nuti. In strettissima collaborazione attesero alla parte scultorea Agostino di Duccio col fratello Ottaviano, Giovanni di Francesco e Pellegrino di Giovanni veneziani. Ne uscì un interno unico in cui sottili lesene classiche, strette tra due cornicioni, legano tra loro pareti e cappelle in un ritmo verticale di sapore gotico: balaustre, portali, pilastri, cornici, capitelli e persino sculture e bassorilievi sostanzialmente rinascimentali riescono a fondersi senza stridori con una decorazione di scudi, vesti, elmi piumati e damaschi, insegne araldiche e festoni del più lussuoso costume del gotico internazionale, tradotti in marmi e pietre colorate con una intensità e ricchezza decorativa senza precedenti. Questo equilibrio deve molto al linearismo nervoso e scattante degli stiacciati di Agostino di Duccio, che rivestì di pannelli marmorei pilastri, pareti e sarcofagi, evocando, tra fiaba e storia, virtù teologali e cardinali, angeli musici e putti in gioco, pianeti e segni zodiacali, storie e paesi. Per l’esterno, affidatogli nel 1450, Leon Battista Alberti disegnò un involucro autonomo dentro il quale resta perfettamente racchiuso il vecchio organismo con le nuove aggiunte. Il rivestimento del tempio fu realizzato da Matteo de’ Pasti, protomaestro di tutta l’opera; ma la crisi malatestiana di quegli anni ne impedì il completamento. Rimangono l’incompiuta facciata ispirata all’arco di Rimini, in cui la classicità romana dei rapporti tra colonna e muro si manifesta in nuovi moduli, e, sugli alti stilobati, i due fianchi, successione di archi e pilastri di una forza e armonia che neppure gli antichi acquedotti conobbero. Così, ispirandosi all’antichità, ma in forma genialmente originale, l’Alberti postulò per primo la glorificazione di una dinastia nelle forme architettoniche di un edificio. A tal punto l’Alberti riuscì nel suo intento che il papa Pio II scomunicò Sigismondo e definì l’edificio “pieno di opere pagane al punto che sembrava meno una chiesa che non il tempio degli infedeli adoratori del demonio”.